Ombre di un processo / 4 di Carla Baroncelli

26 ottobre 2017 – Seconda udienza

Nella seconda udienza è risuonata la parola: personalità.

A pronunciarla è stato l’avvocato Trombini, difensore, che pertanto chiamerà a testimoniare amici comuni della vittima e dell’imputato, perché “Solo così’ si potrà avere chiaro il rapporto di coppia tra Matteo e Giulia e come lui si relazionava nei confronti della moglie”.

(Più nell’ombra veleggia anche la parola ambigua: moralità).

E se saltasse fuori che l’imputato era un marito buono, bravo e bello, un professionista stimato, un padre eccellente e che alle elementari era un bambino generoso e mite? Potrebbe essere. Ma quando era tutto questo ben di dio? Quando? Sette donne su dieci vittime di femminicidio hanno subito maltrattamenti o stalking, prima di essere uccise. Tre su dieci, però, prima di essere uccise non avevano subito violenza fisica, ma una violenza psicologia, economica, fatta di denigrazione ed umiliazione quotidiana. In questi casi accade che per la donna vittima sia la prima volta che subisce una violenza fisica da parte della persona che l’ha uccisa.

Ma non si tratta di raptus o di delitto passionale, come erroneamente titolano i media. I dati dimostrano che sono meno del 10 per cento i casi in cui il femminicida aveva un disturbo depressivo o una malattia psicologica o psichiatrica, L’imputato aveva accettato la separazione, si opponeva soltanto alla frequentazione dei figli con l’amante della moglie, dice l’avvocato Trombini, poi aggiunge: il femminicidio non è un concetto giuridico, ma sociologico. Ha ragione avvocato, non ancora. Prima o poi questa parola diventerà un concetto legale, com’è successo con la parola stalking.

Già la legge ha recepito la differenza di genere. Genere, parola finora aborrita. Nella convenzione di Istanbul (art 3), infatti, è specificato che “l’espressione ‘violenza contro le donne basata sul genere’ designa qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto tale”. Qualsiasi violenza diretta contro una donna in quanto donna.

Per la prossima udienza, il 3 novembre, l’accusa ha chiamato a testimoniare il fratello di Giulia, la sua amica del cuore, il suo nuovo compagno e un agente di polizia. Ma un’immagine continua a balzarmi davanti. Il Presidente della Corte in apertura d’udienza ha letto i capi d’imputazione a carico di Cagnoni e ricostruito i momenti precedenti l’uccisione di Giulia, il 16 settembre dell’anno scorso. Dettagli crudi, feroci. Furia. Odio. Accanimento da parte dell’imputato.

Nonostante fossero già stati resi noti nella conferenza stampa dopo l’arresto, quei dettagli colpiscono ancora dritti allo stomaco. Guardo le persone che mi stanno vicine: occhi sbarrati, strizzati, sguardi bassi, fiati sospesi. Espressioni di raccapriccio. Comunque siamo tutti immobili e annichiliti. E l’imputato? Scrive. La sua mano non trema, la mascella non si contrae. La penna non inciampa mai. Lo sguardo fisso sul foglio segue la scrittura. Impassibile. Meccanico. Una freddezza che non ci sta con le parole del Giudice: colpita ripetutamente, schizzi, denti, scalini e spigoli di un muro. Lui scrive. Appunti, memorie? Lui continua a scrivere. Come se il fatto non lo riguardasse. Come se Giulia fosse stata un’estranea. Come se non fossero stati sposati 12 anni. Come se non fosse la madre dei loro tre figli.
(continua)

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