Ombre di un processo /8 di Carla Baroncelli

17 novembre 2017 – QUINTA UDIENZA PROCESSO BALLESTRI

In aula oggi, la cosa più sconvolgente, è stata vedere dei filmati delle telecamere di sorveglianza di alcune strade di Ravenna e delle villa dei Cagnoni a Firenze. Sono saltata sulla sedia quando mi sono vista in bicicletta per via Mazzini. E dire che non facevo altro che pedalare. L’orwelliano Grande Fratello, con le nuove, non nuovissime, tecnologie in campo, dopo 33 anni, incute timore e un senso di soffocamento. Quando poi, nelle immagini d’interesse per il processo si è vista da ogni angolazione l’auto dell’imputato andare verso il luogo del delitto ed entrare in via Genocchi, vederlo scendere con Giulia, e dopo un’ora e 47 minuti, risalire sulla macchina da solo, ho pensato: adesso, di fronte all’evidenza, l’imputato si alza e dice: “Sono stato io.” Adesso confessa, ce lo stiamo ripetendo spesso qui fra il pubblico. Ma, niente di tutto questo, l’imputato non ha staccato gli occhi dallo schermo, non un balzo, nessun sussulto. Un avvocato di parte civile, mi ha chiesto durante una pausa: “Perché le donne che vivono continui maltrattamenti e violenze in casa, non se ne vanno?”  Forse perché le donne non sanno di aver il diritto di farlo. Per continuare la risposta, dalla deposizione dell’amico greco di Giulia, suo compagno di banco al liceo, traggo una parola ripetuta più volte: COLPA. “Giulia ha cercato di riparare la relazione col marito, già entrata in crisi da cinque, sei anni, sperando di trovare un nuovo equilibrio per i figli, ma alla fine ha capito che non si poteva più riparare nulla, e ha chiesto il divorzio.” Giulia viveva come una che sta in apnea, piena di paure, triste, infelice. Viveva sopraffatta dal senso di colpa. Combattuta fra il desiderio di tornare libera di vivere la propria vita assieme ai suoi amatissimi figli e la consapevolezza che la sua scelta avrebbe procurato loro dolore e turbamento. La sua scelta era o loro o io. Ha scelto loro per anni. Giulia ha assunto su di sé interamente la colpa del fallimento del matrimonio. “L’ho fatto per i figli”, quante nonne di oggi confessano di non aver vissuto la vita che avrebbero voluto per evitare i sensi di colpa. Le donne pensano, sentono e vivono l’ambiguità del loro essere donne e nel contempo madri. Di sentirsi forti e nello stesso tempo deboli. Il senso di colpa rende immobili e in attesa. Ed è su questo senso di colpa che lavorano molti uomini per costringere le donne a restare inchiodate alla famiglia, al ruolo di mogli e madri. Abbandonando la donna alla tristezza.  E sullo stesso senso di colpa insistono anche familiari: “Pensaci bene, non aver fretta, pensa alla gente, pensa ai bambini…” La colpa è di chi viene meno al precetto morale: il ruolo della moglie è il ruolo del materno. E quanti figli, diventati grandi, rivelano alla madre: “Perché non hai lasciato papà?”, “Per la gente, per voi figli”, “Avrei preferito che tu lo avessi lasciato, almeno non ti avrei visto così triste e infelice”. Ma già, di queste cose non si parla coi bambini, sono troppo piccoli, non capiscono, non sanno, non sentono… Non ne sarei così sicura. I bambini e le bambini leggono gli occhi e ascoltano. Forse non capiscono.  La colpa è il ricatto vien fatto alla madre che non s’adegua al suo compito di sacrificio e sofferenza. Come la Madonna.  Nell’imputato non c’è alcun senso di colpa, anzi. Al termine dell’udienza ride alle battute ironiche del suo avvocato, mentre con due dita toglie un peletto bianco dalla sua tonaca nera.