OMBRE DI UN PROCESSO/18 di Carla Baroncelli

23 febbraio 2018 – QUINDICESIMA UDIENZA PROCESSO BALLESTRI CONTRO CAGNONI

“Sono l’ombra di me stesso”. Questa è la fin troppo facile ombra di oggi. È tratta da una frase dell’imputato. “Non ce la faccio più”.

Non è Giulia a dire questa frase, oggi in aula. Giulia non c’è più. E’ stata uccisa per averla detta. L’ha detta invece l’imputato in una dichiarazione spontanea alla fine della quindicesima udienza. “Chiedo alla Corte clemenza e fiducia per alleggerire la detenzione”, cioè l’imputato ha chiesto gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico. “Sono cambiato io, dall’ultima richiesta è come fosse passato un anno”. La precedente richiesta è di due mesi fa. Effettivamente l’imputato tiene un low profile, lo sguardo basso, ha la voce scoraggiata, tratteggiata da incrinature. Oggi sembra com’era Giulia quando andarono dallo psicologo di coppia: down.

“Oggi sono una persona in grado di dominare le mie pulsioni”.

Dal pubblico colgo brandelli di indignazione: “In galera deve restare e si deve buttare via la chiave”. “Dopo aver ammazzato Giulia, ora vuole clemenza? Quella clemenza che gli chiedeva Giulia? quella che lei non ha avuto?”. Vado all’inizio dell’udienza di oggi. Per primo è stato chiamato un amico dell’imputato. Consultando gli appunti delle precedenti udienze, ho trovato le testimonianze di altri amici. Appaiono tuttora un gruppo di soli amici maschi. Stesse parole, stessi non ricordo. Magari ci si conosce da quindici o vent’anni. Magari all’inizio ci si misurava le nudità in palestra, forse qualcuno sputava più lontano di un altro. Poi ci si confidavano le conquiste. Posizioni, durate, quantità. Più tardi si è anche diventati testimoni di nozze l’uno dell’altro. Nel gruppo ci sono il bello, il brutto, il buono e il cattivo. Ci sono gli ambiziosi, i dominatori, i vendicativi. Ma alla fine si è sempre d’accordo. Le complicità giovanili si rinsaldano, maturano man mano che si cresce. A cinquant’anni suonati c’è l’amico che si intesta schede telefoniche per permettere all’altro amico di chiamare, senza farsi scoprire dalla moglie, una prostituta, un’accompagnatrice o una escort, nei momenti di bisogno. Eppure: “La famiglia era molto importante per lui … Era preoccupato del rapporto con i figli”. Tutti sono d’accordo. Più d’uno consiglia un investigatore privato per pedinare quella stessa moglie. Tutti sono d’accordo: servirà in caso di divorzio … per l’affidamento dei figli, forse. C’è anche l’amico che s’incarica di chiedere informazioni sull’amante della moglie. L’amante: “Quella persona lì, che tutti conoscono come uno sfigato, quello di cui Matteo non nominava neanche il nome”. Anche pedofilo, ricorda il cattivo. Tutti d’accordo. Gli sputi si sono trasformati in parole, ma il concetto non cambia. Durante l’ultima cena fra quegli amici, il 6 di settembre, dieci giorni prima del femminicidio di Giulia, compare sulla tavola del convivio un file audio. E’ la registrazione telefonica di una conversazione rubata. La voce di Giulia che si sfoga col suo nuovo compagno e racconta ciò che prova durante i rapporti sessuali col marito, quelli che, da altri testimoni, abbiamo saputo essere stati, in quegli ultimi mesi, forzati, pretesi, violenti. Il marito c’è rimasto male: la sua sessualità, no, e poi no. “Era una figura pubblica, conosciuto a Ravenna e anche fuori. Temeva lo sputtanamento. Il disonore”. La preoccupazione di Matteo è la firma dell’accordo di separazione, il 13 settembre, dall’avvocata di Forlì. Tutti sono d’accordo, anche quando in aula spesso non ricordano o accampano scuse: “Al ristorante si sentiva poco e male … “. Solidali fino all’ultimo. Il tempo non è passato

“Sto perdendo la voglia di vivere … chiedo un gesto umano per farmi recuperare energia. Ho paura che mi venga un tumore per l’abbassamento delle difese del sistema immunitario”.

Si è parlato oggi anche di una porzione di ramo, di pino domestico col taglio recente, ancora con l’odore di legno e resina. Proviene dall’abbattimento di pini della villa di Marina Romea. Insieme ad altri bastoni è stato portato a casa in via Giordano Bruno. Poi è stato rinvenuto nella villa di via Genocchi: intriso di sangue, col dna dell’imputato. E’ stato abbandonato vicino ad un quadro. Chiaro indice di premeditazione. L’altra arma del delitto è nello scantinato. E’ lo spigolo di muro. L’abbiamo rivisto oggi in un video, girato dalla polizia nel primo sopralluogo. Uno spigolo sbrecciato che finisce in una grande pozza rossastra: “Questo è sangue!”. Dalla pozza si diparte una strisciata sul pavimento. “Uscite tutti quanti”. Nero. La ripresa della Scientifica si interrompe. Il tempo si è fermato lì. Quasi un’ora è durata l’agonia di Giulia. Il pover’uomo pare prostrato in preghiera: “Mi sento ai piedi di Cristo”. Dove Cristo è lui stesso. “Vivo un profondo malessere che mi fa pian piano morire ogni giorno”.

La PM dice che “questa sofferenza psichiatrica e l’incompatibilità col sistema carcerario non ci viene assolutamente segnalata dalla direzione del carcere”.

“Se un uomo lo si vuol distruggere, gli si tolgono i figli … I miei figli sono la mia unica ragione di vita. La loro mancanza mi affossa, il non potere avere un contatto con loro, il non sentire il loro odore … non riesco neanche a guardare le loro foto”.

L’imputato ha toccato il tasto più dolente: i bambini. Eliminata la madre, distrutti i figli.
La decisione di non poter vedere i figli non è di questo Tribunale, spetta al Tribunale dei minorenni, precisa la PM. D’Aniello, mentre dà parere negativo alla richiesta dell’imputato degli arresti domiciliari, seppur con i braccialetti elettronici. Rispetta la sua sofferenza, ma, “Se si chiudesse oggi il processo, si andrebbe a una sentenza di condanna”. L’avvocato Scudellari, che rappresenta i Ballestri, commenta: “Ai piedi di Cristo, ci sono i familiari di Giulia, per i quali non è passato neppure un momento”.
Perché Giulia aveva tanta voglia di vivere. Di amare. Sé. I figli. Un altro uomo. Gli amici. La vita. Pensava a separarsi e a ricominciare daccapo. E quella sera della cena degli amici, il 6 settembre, cosa faceva Giulia? Me la immagino a casa, con i figli abbarbicati addosso, semiaddormentati, sereni. Anche lei pensa all’incontro con l’avvocata di Forlì per la firma dell’accordo di separazione. Pare tutto a posto. L’affidamento congiunto dei figli nella loro casa. Purché non soffrano. Mette a letto i bambini. Li bacia. Per il resto ci sarà tempo, dopo, dopo, quando la separazione sarà firmata. Forse pensa: domani comprerò le costine di maiale per pranzo, i bambini ne vanno matti. Giulia non sa, non ancora, che quell’accordo sarà una bufala, che suo marito non ha più un soldo, né una proprietà intestata. Sa solo che il marito non le farà mai del male: l’ha giurato sui figli.

“Sono l’ombra di me stesso”. Questa è la fin troppo facile ombra di oggi. È tratta da una frase dell’imputato. “Non ce la faccio più”.

Non è Giulia a dire questa frase, oggi in aula. Giulia non c’è più. E’ stata uccisa per averla detta. L’ha detta invece l’imputato in una dichiarazione spontanea alla fine della quindicesima udienza. “Chiedo alla Corte clemenza e fiducia per alleggerire la detenzione”, cioè l’imputato ha chiesto gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico. “Sono cambiato io, dall’ultima richiesta è come fosse passato un anno”. La precedente richiesta è di due mesi fa. Effettivamente l’imputato tiene un low profile, lo sguardo basso, ha la voce scoraggiata, tratteggiata da incrinature. Oggi sembra com’era Giulia quando andarono dallo psicologo di coppia: down.

“Oggi sono una persona in grado di dominare le mie pulsioni”.

Dal pubblico colgo brandelli di indignazione: “In galera deve restare e si deve buttare via la chiave”. “Dopo aver ammazzato Giulia, ora vuole clemenza? Quella clemenza che gli chiedeva Giulia? quella che lei non ha avuto?”. Vado all’inizio dell’udienza di oggi. Per primo è stato chiamato un amico dell’imputato. Consultando gli appunti delle precedenti udienze, ho trovato le testimonianze di altri amici. Appaiono tuttora un gruppo di soli amici maschi. Stesse parole, stessi non ricordo. Magari ci si conosce da quindici o vent’anni. Magari all’inizio ci si misurava le nudità in palestra, forse qualcuno sputava più lontano di un altro. Poi ci si confidavano le conquiste. Posizioni, durate, quantità. Più tardi si è anche diventati testimoni di nozze l’uno dell’altro. Nel gruppo ci sono il bello, il brutto, il buono e il cattivo. Ci sono gli ambiziosi, i dominatori, i vendicativi. Ma alla fine si è sempre d’accordo. Le complicità giovanili si rinsaldano, maturano man mano che si cresce. A cinquant’anni suonati c’è l’amico che si intesta schede telefoniche per permettere all’altro amico di chiamare, senza farsi scoprire dalla moglie, una prostituta, un’accompagnatrice o una escort, nei momenti di bisogno. Eppure: “La famiglia era molto importante per lui … Era preoccupato del rapporto con i figli”. Tutti sono d’accordo. Più d’uno consiglia un investigatore privato per pedinare quella stessa moglie. Tutti sono d’accordo: servirà in caso di divorzio … per l’affidamento dei figli, forse. C’è anche l’amico che s’incarica di chiedere informazioni sull’amante della moglie. L’amante: “Quella persona lì, che tutti conoscono come uno sfigato, quello di cui Matteo non nominava neanche il nome”. Anche pedofilo, ricorda il cattivo. Tutti d’accordo. Gli sputi si sono trasformati in parole, ma il concetto non cambia. Durante l’ultima cena fra quegli amici, il 6 di settembre, dieci giorni prima del femminicidio di Giulia, compare sulla tavola del convivio un file audio. E’ la registrazione telefonica di una conversazione rubata. La voce di Giulia che si sfoga col suo nuovo compagno e racconta ciò che prova durante i rapporti sessuali col marito, quelli che, da altri testimoni, abbiamo saputo essere stati, in quegli ultimi mesi, forzati, pretesi, violenti. Il marito c’è rimasto male: la sua sessualità, no, e poi no. “Era una figura pubblica, conosciuto a Ravenna e anche fuori. Temeva lo sputtanamento. Il disonore”. La preoccupazione di Matteo è la firma dell’accordo di separazione, il 13 settembre, dall’avvocata di Forlì. Tutti sono d’accordo, anche quando in aula spesso non ricordano o accampano scuse: “Al ristorante si sentiva poco e male … “. Solidali fino all’ultimo. Il tempo non è passato

“Sto perdendo la voglia di vivere … chiedo un gesto umano per farmi recuperare energia. Ho paura che mi venga un tumore per l’abbassamento delle difese del sistema immunitario”.

Si è parlato oggi anche di una porzione di ramo, di pino domestico col taglio recente, ancora con l’odore di legno e resina. Proviene dall’abbattimento di pini della villa di Marina Romea. Insieme ad altri bastoni è stato portato a casa in via Giordano Bruno. Poi è stato rinvenuto nella villa di via Genocchi: intriso di sangue, col dna dell’imputato. E’ stato abbandonato vicino ad un quadro. Chiaro indice di premeditazione. L’altra arma del delitto è nello scantinato. E’ lo spigolo di muro. L’abbiamo rivisto oggi in un video, girato dalla polizia nel primo sopralluogo. Uno spigolo sbrecciato che finisce in una grande pozza rossastra: “Questo è sangue!”. Dalla pozza si diparte una strisciata sul pavimento. “Uscite tutti quanti”. Nero. La ripresa della Scientifica si interrompe. Il tempo si è fermato lì. Quasi un’ora è durata l’agonia di Giulia. Il pover’uomo pare prostrato in preghiera: “Mi sento ai piedi di Cristo”. Dove Cristo è lui stesso. “Vivo un profondo malessere che mi fa pian piano morire ogni giorno”.

La PM dice che “questa sofferenza psichiatrica e l’incompatibilità col sistema carcerario non ci viene assolutamente segnalata dalla direzione del carcere”.

“Se un uomo lo si vuol distruggere, gli si tolgono i figli … I miei figli sono la mia unica ragione di vita. La loro mancanza mi affossa, il non potere avere un contatto con loro, il non sentire il loro odore … non riesco neanche a guardare le loro foto”.

L’imputato ha toccato il tasto più dolente: i bambini. Eliminata la madre, distrutti i figli.
La decisione di non poter vedere i figli non è di questo Tribunale, spetta al Tribunale dei minorenni, precisa la PM. D’Aniello, mentre dà parere negativo alla richiesta dell’imputato degli arresti domiciliari, seppur con i braccialetti elettronici. Rispetta la sua sofferenza, ma, “Se si chiudesse oggi il processo, si andrebbe a una sentenza di condanna”. L’avvocato Scudellari, che rappresenta i Ballestri, commenta: “Ai piedi di Cristo, ci sono i familiari di Giulia, per i quali non è passato neppure un momento”.
Perché Giulia aveva tanta voglia di vivere. Di amare. Sé. I figli. Un altro uomo. Gli amici. La vita. Pensava a separarsi e a ricominciare daccapo. E quella sera della cena degli amici, il 6 settembre, cosa faceva Giulia? Me la immagino a casa, con i figli abbarbicati addosso, semiaddormentati, sereni. Anche lei pensa all’incontro con l’avvocata di Forlì per la firma dell’accordo di separazione. Pare tutto a posto. L’affidamento congiunto dei figli nella loro casa. Purché non soffrano. Mette a letto i bambini. Li bacia. Per il resto ci sarà tempo, dopo, dopo, quando la separazione sarà firmata. Forse pensa: domani comprerò le costine di maiale per pranzo, i bambini ne vanno matti. Giulia non sa, non ancora, che quell’accordo sarà una bufala, che suo marito non ha più un soldo, né una proprietà intestata. Sa solo che il marito non le farà mai del male: l’ha giurato sui figli.