OMBRE DI UN PROCESSO/25

di Carla Baroncelli

3 aprile 2018 – VENTIDUESIMA UDIENZA – PROCESSO CONTRO MATTEO CAGNONI PER IL FEMMINICIDIO DI GIULIA BALLESTRI

“Giocherellone” e “Castelli di Sabbia’, sono le parole acute dell’udienza di oggi.
La prima, l’ha pronunciata un’amica dell’imputato, è un aggettivo di fresca comparsa nel processo: dicesi di persona allegra e spensierata, ma anche vana. Le altre sono del Presidente della Corte, Corrado Schiaretti. La scena si apre su undici maschi, fra i cinquanta e i sessant’anni, in costume da bagno che costruiscono un Castello di Sabbia. Al posto di palette e secchielli, usano forchette, coltelli e qualche boccale di birra.
Non è che siano gran bei fisici, esteticamente parlando, pancette e calvizie imperversano, ma la scena di oggi è questa. Uomini in braghette.  Sono gli amici legati da una conoscenza trentennale con Matteo “il giocherellone”. Cantano in coro sulle note di ‘Stessa spiaggia stesso mare’, rivisitato su un ritmo rap, sotto la direzione dell’Avvocato della Difesa. E’ uno spartito vecchio e polveroso, già suonato da altri amici dell’imputato nelle precedenti udienze. SI, NO, SINO, NOSI. Noioso da ascoltare. Ma pare non si sia trovato di meglio.
Ridendo e mangiando i Nostri erigono il Castello di Matteo.
Impastano granelli di sabbia per la prima torre: lui, Matteo, è simpatico, sognatore, intelligente, con grandi capacità professionali, molto innamorato di Giulia, persona assolutamente misurata, amoroso, gentile, uno dei più tranquilli del gruppo, equilibrato, educato, piacevole, mai geloso. Serve altra sabbia per la torre più bassa. Lei, Giulia, è persona stupenda, non succube, razionale, solare, donna dolcissima, sempre sorridente, affettuosa col marito e coi figli.
Tutt’attorno le mura merlate con i pirocchini di sabbia e acqua. La coppia: normale, affiatata, mai visti litigare, tranquilli, affettuosi, armonia, estremamente in sintonia.
“Oh che bel castello, marcondiro ndiro ndello”, cantano gli amici in coro. Il fossato. Il ponte levatoio. Che il fuori non entri, che il dentro non fuoriesca.
Ci vuole un brindisi e un’oliva.
La PM interrompe la musica: “Sono solo parole vuote, prive di ogni contenuto, la personalità si ricostruisce attraverso i fatti”. Rincara il Presidente: “Parole inutili, castelli di sabbia”.
In effetti gli amici del Castello di Sabbia non sanno nulla di Matteo, né di Giulia. Non hanno mai parlato della crisi del loro matrimonio, né della separazione, né del nuovo amore di Giulia, né delle escort frequentate da Matteo, né delle spie che inseguono Giulia. Neppure le altre mogli del gruppo sapevano, erano troppo occupate nel loro Castello a imbandire cene e occuparsi dei loro bambini.  Dell’inferno che regna dentro al Castello di Matteo, dei fuochi fatui che s’alzano dai bracieri, delle luci rosso sangue, il coretto candidamente confessa: “Non ci siamo accorti di nulla”. E’ venerdì 16 settembre 2016.
Un’onda fredda, gonfia, nera e blu con una corona di schiuma in testa e il Castello ritorna battigia. Il mare porta con sé il sorriso dei suoi abitanti, una donna e i suoi tre bambini.
E dire che fuori il cielo è azzurro e il sole lucente.
“Oh che bel castello, marcondiro ndiro ndà”.
Quella stessa sera di venerdì, durante una cena a Firenze, Matteo, che pare arrabbiato e addolorato, confida all’amico Paolo l’imminente separazione dalla moglie. “Matteo dai, ora troverai un’altra donna” lo conforta e “Matteo mi disse: io voglio lei”.
Parole che ottundono qualsiasi pensiero.
“Io voglio lei”. Giulia, durante quella cena, era già morta. Da dieci, dodici ore.
“Matteo è un giocherellone, gli piace far scherzi”, afferma l’amica Valeria.
Far scherzi, far finta, fare come se, apparire. La facciata. La faccia da mostrare al mondo. L’altra faccia da nascondere dentro un Castello. Una recita per salvare l’onore della famiglia.
Una coperta di sabbia per nascondere l’inferno.
‘Sembravano una famiglia normale’, anche questa frase è trita e ritrita e già tante volte l’abbiamo sentita dire dai vicini delle donne uccise dal loro marito o compagno.
I casi sono due: o gli amici hanno mentito, oppure davvero non si sono accorti di nulla. Nel primo caso, mi rimetto a giustizia, nel secondo, pare davvero eccessivo chiamare amicizia un tal vuoto di relazioni.
Amici per la pelle o amici in simil-pelle?
“Ognuno vede ciò che vuol vedere, e non vede ciò che non vuol vedere”, prendo a prestito questa battuta dall’Avvocato della Difesa.
Nel deprimente vuoto odierno, piomba una dichiarazione spontanea dell’imputato, che vuol così “togliere ogni cappa di morbosità” attorno al processo.
Primo: Desio, ex don. Diagnosticato dal dottor Cagnoni: bizzarro, veste jeans e nike, forse è omosessuale, “aveva disturbo di personalità”. Con abile intelligenza speculativa (precedentemente da lui attribuita a Giulia) Matteo ottiene dal non ancora ex don, direttore della rivista Risvegli, di tenere una rubrica di dermatologia “Mi serviva per diventare giornalista”. Poi quando il don diventa ex, con la condanna di pedofilia, Matteo confessa: “Vivevo con orrore per avergli fatto battezzare mio figlio, ma mi aveva ricattato: “se non me lo fai fare, non ti do il tesserino”. Poi ho chiesto al vescovo se il battesimo era valido, sì era valido”. Sospiro di sollievo del pubblico in aula. Mi pare.
Secondo: dal letame, nascono i fior. Sulle note di Bocca di Rosa, di Fabrizio De Andrè, l’imputato introduce la figura della escort.
Macché escort, si tratta di una ragazza dolcissima conosciuta un mese prima in un bar a Cervia. “Fino a giugno sono stato fedele. Il matrimonio con Giulia è stato per nove decimi meraviglioso, per un decimo, un inferno. Giulia era latitante con me, mi rifiutava, era distante anche coi bambini. E io dovevo far tutto. Occuparmi di loro e mettere da parte il mio lavoro”.
Come se le donne non lavorassero, non si occupassero della casa, dei piccoli, dei grandi e dei vecchi contemporaneamente, per i dieci decimi della loro vita.
“Quella ragazza non era una prostituta, era come … Bocca di Rosa, con lei respiravo ossigeno”.
Perché lui poteva concedersi di respirare ossigeno con una escort e Giulia non poteva fare altrettanto col suo nuovo amore?
E siccome il Cagnoni Pensiero vuol star sopra come l’olio, arriva subito dopo la maschia puntualizzazione: “Non è mia abitudine, una donna la posso trovare senza pagare. I nostri nonni che andavano nelle case chiuse sarebbero stati tutti da condannare”.
Per quanto mi stimoli, non mi pare il caso di aprire ora un dibattito sulle case di tolleranza, chiuse da una legge del 1958 che porta il nome di una donna. E non entro nel merito della prostituzione.
Silenzio. Torniamo in aula.
Il Nostro ha raggiunto l’apice, pronunciando la parola RIMPIANTO. Al sol pensiero, il Dottore si commuove e balbetta: “Il rimpianto di non esserci trasferiti a Firenze. Se lo avessimo fatto, Giulia ci sarebbe ancora”.
Mi oppongo vostro Onore!
Giulia non voleva trasferirsi a Firenze. Voleva stare a Ravenna con i suoi figli. Voleva ricominciare a lavorare. Voleva amare un nuovo amore. Voleva vivere.
Perché l’imputato non lo vuol capire? Neppure oggi, visto che insiste.
Giulia ci sarebbe ancora, se avesse ubbidito, abbassato la testa, se fosse stata zitta e succube.
Se avesse accettato di vivere nel Castello di Sabbia, come fanno in silenzio migliaia di donne chiuse nei loro Castelli, perché sanno che a uscire dal castello si rischia la vita. Fuori c’è un femminicidio ogni due giorni. Sono state 114 le donne che, l’anno scorso in Italia, hanno pagato con la vita la disubbidienza ai dettami del loro patriarca. Fuori c’è una denuncia di stalking al giorno. E ci sono 1600 orfani di violenza domestica, come li chiama la nuova legge.
Eppure, per l’imputato sarebbe bastato che Giulia avesse accettato di trasferirsi a Firenze, nel Castello di Sabbia di Famiglia.
‘E con la Vergine in prima fila
E Bocca di Rosa poco lontano
Si porta a spasso per il paese
L’amore sacro e l’amor profano’.
Sarebbe stato un finale migliore.
Ma ormai l’abbiamo capito “è’ tutta colpa di Giulia”.
L’imputato contento torna in cella a scrivere il suo nuovo libro.